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Rimborso legittimo per l’Ivafe

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della LOMBARDIA Sezione 16, riunita in udienza il 11/10/2023 alle ore 09:30 con la seguente composizione collegiale:

IZZI GIOVANNI, Presidente

POLITANO GIAN CARLO, Relatore

GHINETTI ANDREA PIO CARLO, Giudice

in data 11/10/2023 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

– sull’appello n. 3468/2022 depositato il 08/11/2022

proposto da

***********

Difeso da

Maurangelo Rana – RNAMNG66R02A883Y

ed elettivamente domiciliato presso maurangelo.rana@milano.pecavvocati.it

contro

Ag. Entrate Direzione Provinciale Ii Di Milano – Via Ugo Bassi, 6/8 20159 Milano MI elettivamente domiciliato presso dp.2milano@pce.agenziaentrate.it

Avente ad oggetto l’impugnazione di:

– pronuncia sentenza n. 797/2022 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale MILANO sez. 5 e

pubblicata il 16/03/2022

Atti impositivi:

– DINIEGO RIMBORSO n. DINIEGO RIMBORSO 2012 2013 IVAFE

– DINIEGO RIMBORSO IVA-ALTRO 2013

a seguito di discussione in pubblica udienza

Richieste delle parti:

Ricorrente/Appellante:

Riformare Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n.797 del 2022 della Sezione n. 5 pubblicata il 16.03.2022 e, per l’effetto, accogliere il ricorso introduttivo dichiarando l’illegittimità del silenzio rifiuto formatosi relativamente all’istanza di rimborso presentata, il 14.12.2015, e reiterata il 19.02.2020; – Ordinare all’Agenzia delle Entrate-Direzione Provinciale II di Milano (Ufficio Territoriale di Milano 3), di disporre il rimborso pari ad €. 6.557,19, relativo all’imposta versata, sebbene non dovuta, per gli anni d’imposta 2012 e 2013, oltre interessi di legge sino al dì del soddisfo, per l’IVAFE versata da *********** negli anni di imposta 2012 e 2013 in quanto non dovuta ai sensi di quanto previsto dall’art. 9 della Legge 161/2014, recante modifiche ai commi 18, 20 e 21 del D.L. 201/2011; – Condannare la parte resistente al pagamento delle spese di lite, oltre I.V.A. e C.P.A., con distrazione al favore del difensore, ai sensi dell’art. 93, comma 1, c.p.c.

Resistente/Appellato:

Confermare la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n.797 del 2022 della Sezione n. 5, con addebito di spese di giudizio.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con RGA 3575/2022 pervenuto il 15 novembre 2022 alla segreteria della Corte di giustizia tributaria di II° grado della Lombardia, *********** (Avv. Maurangelo Rana) ha chiesto riforma della sentenza n. 797/5/2022 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano pubblicata il 16 marzo 2022, che ha respinto il ricorso del contribuente all’istanza di rimborso d’imposta IVAFE relativa agli anni 2012 e 2013.

Il contribuente in data 14 dicembre 2015, aveva chiesto all’ Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale I di Milano il rimborso dell’IVAFE, versata per gli anni d’imposta 2012 e 2013 in applicazione dell’allora vigente normativa italiana, successivamente dichiarata incompatibile con il sovraordinato diritto UE. L’Ufficio Provinciale I di Milano, aveva respinto il ricorso-reclamo, sostenendo la propria incompetenza, e pertanto il contribuente aveva presentato il 19 febbraio 2020, al competente Ufficio Direzione Provinciale II di Milano una seconda istanza di rimborso, nei cui confronti si era formato il silenzio-rifiuto. La Commissione Tributaria Provinciale di Milano n. 797/5/2022 aveva rigettato il ricorso proposto da *********** avverso il diniego di rimborso relativo all’imposta sul Valore delle Attività Finanziarie detenute all’Estero di €.3.276,00 per l’anno d’imposta 2012 e €.3.281,19 per il 2013, ritenendo che la L. n. 161 del 2014 con la quale il legislatore italiano aveva posto rimedio ai solleciti della Comunità Europea relativamente alla violazione del principio comunitario di libera circolazione dei capitali, avesse decorrenza solamente a partire dal periodo d’imposta relativo all’anno 2014.

Nello specifico il giudice di prime cure aveva ritenuto il ricorso non meritevole di pregio, affermando: “… le nuove norme, per la certezza del diritto, possono disporre solo ex nunc e non ex tunc, quindi essendo le annualità in questione precedenti a dette norme, la nuova novella non è applicabile…” e, “… quanto all’indebito arricchimento da parte dell’Agenzia delle Entrate, la questione non risulta rientrante nella competenza di questo Giudice, ma del giudice ordinario, trattandosi d’Istituto civilistico che dà luogo a situazioni di diritto soggettivo, anche quando parte sia una PA”.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il diverso trattamento fiscale degli investimenti di natura finanziaria, a seconda che fossero effettuati in Italia o in un altro Stato membro dell’UE o dello Spazio economico europeo (SEE), determinava una violazione del principio di libera circolazione dei capitali sancito dall’art. 63 del Trattato dell’UE (TFUE) e dall’art. 40 dell’Accordo sullo Spazio economico europeo. Nel 2013 la norma fiscale italiana veniva dichiarata, dalla Commissione Europea, ostacolo alla libera circolazione dei capitali nell’UE e, pertanto, incompatibile con i principi fondamentali dell’Unione. A tale raccomandazione seguiva l’adattamento, da parte del legislatore nazionale, della disciplina IVAFE in merito al principio della libera circolazione dei capitali all’interno dell’Unione Europea.

Nel caso di specie, questa Corte, prende atto che effettivamente, come sostenuto dall’Ufficio resistente, la legge 161/2014, art. 9 comma 2, che ha adattato la normativa italiana in modo da renderla compatibile con la normativa europea, onde evitare un procedimento d’infrazione ufficiale contro l’Italia, per espresso disposto di legge, chiaramente previsto dall’art. 9 comma 1 della sopraccitata legge 161/2014, aveva effetto a decorrere dal periodo d’imposta relativo all’anno 2014, escludendo la possibilità di rimborso per i versamenti effettuati relativamente agli anni precedenti, pertanto i rimborsi relativi agli anni 2012 e 2013 non potevano trovare accoglimento da parte dell’Ufficio. Giova sottolineare che il versamento dell’IVAFE effettuato dal sig. *********** a seguito della detenzione di partecipazioni a s.r.l. estere per gli anni d’imposta 2012 e 2013, è stato effettuato in forza di una norma nazionale italiana successivamente dichiarata contraria al principio di libera circolazione dei capitali all’interno della UE.

Tuttavia la nascita e la tutela dei diritti di origine comunitaria è assistita dal principio comunitario di effettività, dal quale discendono tutti gli elementi che oggi connotano l’integrazione giuridica europea. Tale considerazione risulta evidente esaminando la formulazione dell’articolo 10 del Trattato dell’UE, e le elaborazioni effettuate su tale articolo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ed è confermata dalla circostanza che sono già stati realizzati degli studi in altri settori, sempre in materie giuridiche sull’impatto del principio comunitario di effettività sulla disciplina del procedimento amministrativo e del processo. All’operatività della preminenza, per la soluzione di eventuali conflitti fra la norma interna e quella Comunitaria, la Corte di Giustizia è giunta sin dall’inizio della sua attività. A tale proposito è stato evidente sin dall’inizio che per un’effettiva integrazione del sistema comunitario con quello dei singoli Stati membri si rendesse necessario garantire una preminenza automatica delle norme UE su quelle interne, sia anteriori che posteriori. (Camera dei deputati – XVII Legislatura – Dossier di documentazione AC N. 1864/XVII inerente gli adempimenti previsto dagli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea -Legge europea 2013 bis.

In conclusione ritiene questa Corte che la norma di cui all’art. 19 D.L. n. 201 del 2011 fosse sin dall’inizio in contrasto con il Trattato UE (ed in particolare con l’art. 63) e con l’art. 40 dell’Accordo sullo Spazio economico Europeo e, di conseguenza fosse illegittima l’imposizione dell’imposta anche per gli anni 2012 2013. Pertanto vista la preminenza della legislazione europea su quella nazionale, il giudice italiano è tenuto a disapplicare la norma italiana.

L’orientamento di tutta la giurisprudenza italiana (Cass. n. 20435 dd 26 settembre 2014 in materia di IVA; Cass. 13 maggio 2016, n. 9823 18 dicembre 2017 n. 56264 in materia di condono; nonché della Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 389/1989; Corte cost. n. 168/1991; Corte Cost. n. 226/2014) è uniforme nel prevedere che la normativa comunitaria prevalga su quella italiana e vi sia un obbligo del giudice nazionale di disapplicare la normativa nazionale risultata incompatibile dando applicazione d’ufficio al diritto comunitario in attuazione del principio di effettività contenuto nell’art. 10 del Trattato CE.

Il contribuente ha versato l’imposta sulla base della previgente normativa fiscale italiana che, seppur in vigore fino al 2014, è stata successivamente modificata per allinearsi alle disposizioni della normativa Europea, e si configura pertanto come un indebito oggettivo che deve essere rimborsato ai sensi dell’art. 38 D.P.R. 602/73.

Tale circostanza legittima il rimborso di quanto versato anche precedentemente al 2014, costituendo la novella legislativa un adattamento al TFUE già vigente al tempo (fonte di rango superiore rispetto a quello nazionale). Per tali motivi, questa Corte ritiene di dover disapplicare la normativa italiana riformando integralmente la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano n.797 del 2022 della Sezione n. 5 pubblicata il 16.03.2022 in accoglimento dell’appello di parte contribuente dichiarando l’illegittimità del silenzio rifiuto formatosi relativamente all’istanza di rimborso, con conseguente condanna dell’Ufficio resistente Agenzia delle Entrate-Direzione Provinciale II di Milano (Ufficio Territoriale di Milano 3), a disporre il rimborso pari ad €. 6.557,19, relativo all’imposta versata, sebbene non dovuta, per imposta 2012 e 2013, oltre interessi di legge.

La particolare natura della causa e la peculiarità della questione trattata, giustifica l’integrale compensazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

Pertanto la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione sedicesima, disattesa e respinta ogni contraria e diversa istanza, domanda, eccezione e deduzione

P.Q.M.

accoglie l’appello proposto dal contribuente e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, condanna l’Amministrazione Finanziaria alla restituzione dell’imposta versata dal contribuente per il 2012 e 2013, nella misura di €. 6.557,19, relativo all’imposta versata, sebbene non dovuta, per gli anni d’imposta 2012 e 2013, oltre interessi di legge.

Compensa tra le parti le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

Così deciso in Milano, lì 11 ottobre 2023.

Il Giudice relatore Gian Carlo Politano

Il Presidente Giovanni Izzi

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La Riscossione esattoriale nell’Unione Europea

LE PROCEDURE DI RISCOSSIONE TRIBUTARIA NELL’AMBITO DELL’UNIONE EUROPEA
Avv. Maurangelo Rana e Dott. Tiziano De Cicco

Le procedure di riscossione “domestica” sono abbastanza note agli esperti del settore tributario, ed in particolare all’Agenzia delle entrate Riscossione.

I problemi intervengono allorquando l’amministrazione debba attivare tali procedure al di fuori dei confini nazionali o, viceversa, qualora un ente estero debba effettuare una esecuzione esattoriale a carico di un contribuente domiciliato fiscalmente in Italia.

Se un cittadino francese, infatti, possiede dei beni o un conto corrente in Italia, l’amministrazione finanziaria francese può avviare una procedura esecutiva nei confronti dei beni ivi detenuti? E se un cittadino italiano possiede un conto corrente o un bene immobile in Germania, l’amministrazione finanziaria italiana può procedere al pignoramento, o all’iscrizione ipotecaria, in Germania?

La risposta è affermativa in entrambe le ipotesi.

A prevedere tale possibilità è stata la Direttiva Comunitaria 2010/24/UE che ha disciplinato, in un’ottica di collaborazione tra le amministrazioni finanziarie degli stati membri, le procedure di recupero dei tributi e dei dazi nel territorio comunitario.

Tale ottica di collaborazione è stata resa possibile grazie allo scambio di informazioni automatico tra le amministrazioni finanziarie degli stati membri, già previsto dalla precedente Direttiva 2003/48/CE.

Lo scambio di informazioni automatico, e la successiva Direttiva 2010/24/UE, si fondano sul definitivo superamento del “principio di non collaborazione”, già consacrato nell’art. 27 OCSE rubricato “Assistance in the collection of taxes” tra gli Stati contraenti della menzionata convenzione internazionale.

Ponendo l’attenzione sul nostro ordinamento, la Direttiva n. 2010/24/UE è stata recepita in Italia col D.lgs. n. 149/2012.

Tale decreto consente il recupero, agli stati membri richiedenti, attraverso l’esperimento di procedure esecutive sul territorio italiano, di “tributi e dazi di qualsiasi tipo”, escludendo, tuttavia, che l’amministrazione finanziaria italiana possa avviare una procedura esecutiva all’estero per il recupero dei contributi previdenziali, delle multe e delle sanzioni penali.

L’art. 4 del D.lgs. n. 149/2012, in particolare, dispone che le autorità degli stati membri che intendano iniziare una procedura esecutiva in Italia, contattino gli uffici di collegamento (dell’ ”Agenzia delle Entrate”, dell’ “Agenzia delle dogane”, dell’ “Agenzia del territorio” o del “Dipartimento delle finanze”, a seconda del tributo che si intenda recuperare), ai quali chiedono di fornire tutte le informazioni necessarie ai fini del recupero del credito, ai sensi di quanto previsto dal DPR n. 605/73, avvalendosi anche dei poteri di cui all’art. 32, comma 2, numero 7) del DPR n. 600/73, e all’art. 51, comma 2, numero 7), DPR n. 633/72.

Lo scambio di informazioni tra stato membro richiedente e uffici di collegamento italiani, tuttavia, è subordinato al rispetto di alcune condizioni: in primo luogo, all’autorizzazione da parte del Direttore Generale delle Finanze; in secondo luogo, tali informazioni non devono essere coperte da segreto commerciale; in terzo luogo, lo scambio di informazioni non deve costituire un pericolo per l’ordine pubblico. In assenza delle suesposte tre condizioni, lo scambio di informazioni tra stati membri non potrà avvenire.

Una volta che l’autorità dello stato membro richiedente abbia ottenuto le informazioni sui beni posseduti dal contribuente – debitore, ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo citato, potrà decidere di avviare una procedura esecutiva nei confronti dei predetti beni presenti sul territorio italiano.

Anche in questo caso, però, l’avvio della procedura esecutiva non avviene sempre de plano: essa verrà iniziata solo se non sia eccessivamente difficoltosa; se non sia iniziata la contestazione del titolo esecutivo davanti all’autorità giurisdizionale dello stato membro richiedente, salvo che l’autorità preposta intenda comunque procedere all’esecuzione; se, con l’avvio dell’attività esecutiva, si abbia la certezza che il credito per il quale si procede verrà soddisfatto. In altre parole, la procedura di riscossione intracomunitaria viene intrapresa solo se lo stato membro richiedente, in virtù dello scambio di informazioni con lo stato membro adìto, abbia la concreta garanzia che il credito per il quale si procede verrà soddisfatto.

Sempre ai sensi dell’art. 8 in esame la domanda di recupero avviene attraverso la compilazione, da parte dello stato membro richiedente, di un “titolo esecutivo uniforme” che viene compilato sulla base di un “titolo esecutivo iniziale” emesso dall’autorità preposta dello stato membro richiedente; il titolo esecutivo uniforme è contenuto all’interno di un “modulo standard”, che viene notificato al debitore.

All’interno del “titolo esecutivo uniforme” (contenuto, si ricorda, nel “modulo standard”) vi è l’indicazione della presa in carico delle somme da parte dell’agente della riscossione; dopo la suddetta notificazione, non solo potranno essere applicate eventuali misure cautelari sui beni del contribuente – debitore, ma la procedura esecutiva potrà essere avviata in qualsiasi momento, senza preventiva iscrizione a ruolo della somma per cui si procede e, quindi, senza la previa notifica della cartella di pagamento.

L’art. 12 del D.lgs. n. 149/2012, tuttavia, prevede due condizioni ostative all’avvio del procedimento di riscossione intracomunitario: la prima, si riferisce al fatto che dal momento in cui il credito diviene esigibile per lo stato membro richiedente, e sino al momento della domanda di assistenza per la riscossione della somma, non devono decorrere più di cinque anni; la seconda, è che la procedura esecutiva potrà essere avviata solo se l’importo non sia inferiore a 1.500,00 euro.

A garanzia del supremo diritto di difesa, il contribuente – debitore, cui sia stato notificato il “titolo esecutivo uniforme”, avrà la possibilità di contestarlo.

L’art. 9 del decreto legislativo in esame, in particolare, precisa che se l’interessato intenda contestare il “titolo esecutivo uniforme” o il “titolo esecutivo iniziale”, dovrà adire l’autorità giurisdizionale dello stato membro che ha emesso tali titoli. Se, invece, voglia contestare la ritualità della notifica del “titolo esecutivo uniforme”, dovrà adire l’autorità giurisdizionale italiana.

In altre parole, qualora un cittadino francese che possieda una villa in Sardegna voglia contestare il “titolo esecutivo uniforme” o il “titolo esecutivo iniziale”, dovrà rivolgersi all’autorità giurisdizionale francese. Se intenda sollevare eccezioni in merito alla ritualità della notifica del “titolo esecutivo uniforme” dovrà rivolgersi, invece, al giudice italiano.

Una volta che il contribuente abbia proceduto alla contestazione davanti all’autorità giurisdizionale dello stato membro richiedente, quest’ultimo ne darà comunicazione agli uffici di collegamento dello stato membro adìto, i quali sospenderanno la procedura di esecuzione (salvo che l’autorità richiedente, attraverso un’adeguata motivazione, non intenda comunque dar corso alla procedura esecutiva).

La procedura di riscossione potrà essere sospesa in un ulteriore caso: quando, nelle ipotesi di transfer pricing, esterovestizione e stabile organizzazione, il contribuente avvii una “Mutual Agreement Procedure” (una procedura amichevole) tra le amministrazioni finanziarie dei due stati membri coinvolti (lo stato membro richiedente e lo stato membro adìto), che abbia ad oggetto un credito che influisca sulla procedura esecutiva intracomunitaria. Tale procedura, in questo caso, verrà sospesa fintanto che non si concluda la “Mutual Agreement Procedure” tra le due amministrazioni finanziarie. Tuttavia, lo stato membro richiedente può insistere affinchè si proceda ugualmente alla riscossione coattiva nel caso in cui sussista un pericolo di frode o di insolvenza.
Se al termine della contestazione davanti ad una delle due autorità giurisdizionali (dello stato membro richiedente o di quello adìto) il contribuente dovesse risultare vittorioso, le misure cautelari attivate a seguito della notifica del “titolo esecutivo uniforme” cesseranno immediatamente, e le eventuali somme riscosse saranno repentinamente restituite. Nel caso opposto, la riscossione proseguirà con beneficio del recupero del credito da parte dello stato membro richiedente.

Che cosa accade se, invece, lo stato membro richiedente sia l’Italia e quello adìto la Francia? La procedura è la stessa, ma all’inverso. L’amministrazione finanziaria italiana contatterà l’ufficio di collegamento francese per ottenere informazioni sui beni posseduti dal cittadino italiano in Francia; una volta ottenute, valutata la convenienza di compiere una procedura esecutiva intracomunitaria per recuperare il proprio credito, compilerà il “titolo esecutivo uniforme” sulla base del “titolo esecutivo iniziale” (che, nel caso dell’ordinamento italiano può essere, ad esempio, una cartella di pagamento), e chiederà agli uffici di collegamento francesi di notificarlo al diretto interessato secondo le norme previste dall’ordinamento francese in materia di notificazione degli atti.

Pertanto, in virtù di quanto sopra esposto, si conclude affermando che l’eventuale possesso di beni mobili e/o immobili all’estero, e viceversa, non consente di eludere le procedure esecutive che l’amministrazione finanziaria può eseguire a tutela del proprio credito.

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Le spese di lite a carico dell’ADER

CRITICITA’ SUL PAGAMENTO DELLE SPESE DI GIUDIZIO DA PARTE DELL’AGENZIA ENTRATE RISCOSSIONE
Avv. Maurangelo Rana e Dott. Tiziano De Cicco

Il contribuente che abbia ottenuto una sentenza di annullamento di una cartella di pagamento (di un fermo amministrativo, di una iscrizione ipotecaria, ecc.) da parte di una Commissione Tributaria, è sicuramente interessato ad incassare le eventuali spese di giudizio poste a carico dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, in caso di sua soccombenza.

L’Agente della riscossione, tuttavia, non sempre provvede in maniera solerte al pagamento di tali spese in favore del contribuente; non di rado, infatti, accade che debba essere il contribuente vittorioso a sollecitare l’accredito delle somme spettanti.

Ci si chiede, dunque, a tal fine, quale sia lo strumento più idoneo offerto dalla norma che consenta al contribuente di intimare all’Agente della riscossione il pagamento delle spese di lite.

Ebbene, qualora eventuali solleciti di pagamento siano stati inevasi, l’unico strumento a disposizione del contribuente è rappresentato dal giudizio di ottemperanza previsto dall’art. 70 del D.lgs. n. 546/1992.

In particolare, il primo comma di tale articolo dispone che la parte interessata possa richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria passata in giudicato, mediante ricorso da depositare in doppio originale presso la segreteria della commissione tributaria (provinciale o regionale) che abbia pronunciato la sentenza i cui obblighi siano rimasti inadempiuti.

Sempre il primo comma del predetto art. 70 pone(va) come condizione preventiva della procedura di ottemperanza il “passaggio in giudicato della sentenza”; ciò veniva richiesto sino all’emanazione del D.lgs. del 24 settembre 2015, n. 156, in cui si è, invece, stabilito che le sentenze tributarie sono immediatamente esecutive e, pertanto, ai fini dell’attivazione del giudizio di ottemperanza, non sarà più necessario attendere il passaggio in giudicato della sentenza.

Il secondo comma del suddetto art. 70, inoltre, asserisce che il ricorso per il giudizio di ottemperanza sia proponibile solo una volta decorso il termine entro il quale la legge prescriva l’adempimento, a carico dell’ente impositore o dell’Agente della riscossione, degli obblighi derivanti dalla sentenza. In mancanza di tale termine (e, quindi, se la legge non provveda a tal riguardo), il giudizio di ottemperanza sarà esperibile decorsi trenta giorni dalla messa in mora dell’ente impositore o dell’agente della riscossione, e fino a quando l’obbligo non si sia estinto.

Rebus sic stantibus, si pone la domanda se, per attivare il giudizio di ottemperanza nei confronti dell’Agenzia delle entrate – Riscossione, che non abbia adempiuto al pagamento delle spese di giudizio in favore del contribuente, la legge preveda un termine entro il quale essa debba provvedere.

Ciò deriva dal fatto che l’art. 14 del D.L. n. 669/1996, convertito nella legge n. 30/1997, dispone che le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici e l’Agenzia delle entrate – Riscossione completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva, comportanti l’obbligo di pagamento di somme di denaro, entro centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine, secondo la lettera della disposizione normativa, il creditore/contribuente non può procedere all’esecuzione forzata, né alla notifica dell’atto di precetto.

Sembrerebbe, dunque, che una volta notificata la sentenza all’Agenzia delle entrate – Riscossione, qualora il pagamento delle spese di lite non dovesse essere effettuato in breve tempo, non si potrebbe attivare il giudizio di ottemperanza se, anteriormente, non decorrano i centoventi giorni previsti dal citato art. 14.

Tale, peraltro, sarebbe l’orientamento espresso dal T.A.R. Puglia con la sentenza n. 1385 del 26 ottobre 2018 che, in tema di applicabilità al giudizio di ottemperanza delle regole riguardanti il termine che il creditore vanta verso la Pubblica Amministrazione o gli enti pubblici economici (nel caso affrontato dal tribunale amministrativo pugliese, l’ente pubblico era l’INPS), si è limitato a richiamare una pronuncia del Consiglio di Stato (sent. n. 2557/2015, conforme anche alla sent. n. 1174/2015), oltre che diverse decisioni di altri tribunali amministrativi.

Al riguardo, peraltro, non si può non rilevare che l’orientamento giurisprudenziale amministrativo non sia del tutto pacifico.

Con una pronuncia di poco anteriore (Cons. Stato n. 2785/2014; ma anche T.A.R. Sicilia, sez. Catania, n. 922/2014), infatti, il massimo organo di giustizia amministrativa ha ritenuto che, per un verso, il riferimento all’esecuzione forzata e all’atto di precetto contenuto nell’art. 14 succitato farebbe intendere che la regola si riferisca all’esecuzione prevista dal codice di procedura civile; per un altro verso, si è esclusa l’applicazione analogica dell’art. 14 al giudizio di ottemperanza, sia in ragione dell’eccezionalità di essa rispetto alla norma generale di cui all’art. 2740 c.c., sia per le caratteristiche procedimentali proprie del giudizio di ottemperanza. Tali caratteristiche, infatti, assicurerebbero ugualmente alla Pubblica Amministrazione lo spatium adimplendi necessario “…per la preparazione dei mezzi finanziari occorrenti al pagamento dei crediti azionati ai fini di evitare la paralisi dell’attività amministrativa derivante dai ripetuti pignoramenti di fondi” (Cons. Stato n. 2785/2014 cit.)contemperando, in tal modo, l’interesse del singolo alla realizzazione del suo diritto con quello, generale, ad una ordinata gestione delle risorse finanziarie pubbliche.

Nonostante il più recente orientamento giurisprudenziale sia favorevole ad una applicazione analogica della disciplina prevista dall’art. 14 del D.L. summenzionato anche al processo tributario, non si può sottacere sul fatto che, coerentemente al rapporto di species a genus che caratterizza il giudizio di ottemperanza rispetto al processo esecutivo civile, si ritiene maggiormente condivisibile la non applicazione dell’art. 14 cit. al giudizio di ottemperanza.

Tuttavia, non essendovi univocità tra gli orientamenti giurisprudenziali, il contribuente che volesse intimare il pagamento delle spese di lite all’Agenzia delle entrate – Riscossione inadempiente, avrebbe due possibilità: la prima, è quella di notificare la sentenza all’Agente della riscossione, attendere il passaggio in giudicato (che decorrerà, secondo il termine breve, dalla notifica) e, successivamente, notificare un ulteriore avviso di messa in mora: una volta decorsi trenta giorni, come previsto dall’art. 70, comma 2, D.lgs. 546/92, incardinare il giudizio di ottemperanza. In altre parole, in tale ipotesi, il contribuente agisce non aderendo all’applicazione analogica dell’art. 14 al giudizio di ottemperanza, esponendosi, tuttavia, ad eventuali eccezioni di inammissibilità di controparte.

La seconda possibilità, invece, consiste nell’applicazione analogica dell’art. 14 cit. al giudizio di ottemperanza: pertanto, il contribuente dovrà notificare la sentenza all’Agente della riscossione, attendere centoventi giorni e, solo successivamente, nel caso di perdurante inadempimento di controparte, incardinare il giudizio di ottemperanza. In tale seconda ipotesi, si rischierebbe di essere meno esposti ad eventuali profili di inammissibilità.

In ogni caso, una volta notificata la sentenza, l’auspicio migliore resta il solerte pagamento delle spese di giudizio in favore del contribuente; nella prassi, infatti, spesso accade che, una volta effettuato l’adempimento della preventiva notifica della sentenza, sia l’Agente della riscossione a contattare il contribuente per procedere in tal senso.

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L’imposta sostitutiva sulle attività finanziarie estere

LIMITI DELL’IMPOSTA SOSTITUTIVA SULLE ATTIVITA’ FINANZIARIE ESTERE
Avv. Maurangelo Rana e Dott. Tiziano De Cicco

Con la risoluzione n. 12 del 18 febbraio 2021, l’Agenzia delle Entrate ha definito l’ambito di applicazione per il regime dei neo domiciliati ex art. 24-bis D.P.R. n. 917/1986 (d’ora in avanti “TUIR”).

Com’è noto, la summenzionata norma dispone che le persone fisiche che trasferiscono la propria residenza in Italia ai sensi dell’art. 2, comma 2, TUIR, possono optare per l’assoggettamento all’imposta sostitutiva, prevista per i redditi prodotti all’estero ex art. 165, comma 2, TUIR, purchè non risultassero fiscalmente residenti in Italia per un tempo almeno pari a nove periodi di imposta nel corso dei dieci precedenti l’inizio del periodo di validità dell’opzione. La scelta del regime opzionale in questione sostituisce l’IRPEF ed è calcolata in via forfetaria, a prescindere dall’importo dei redditi percepiti, nella misura di cento mila euro per ogni periodo di imposta in cui ha efficacia il regime opzionale (la cui efficacia dura quindici anni dalla validità del primo periodo di imposta).

In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha provveduto ad analizzare i criteri di territorialità dei redditi di natura finanziaria, con riferimento alle attività oggetto di un contratto di custodia, di gestione, o di amministrazione e consulenza, stipulato con intermediari italiani, anche qualora depositate presso un conto estero.

L’art. 165, comma 2 del TUIR, in particolare, dispone che i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’art. 23 TUIR per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato.

L’art. 23, comma 1, lett. b) TUIR fornisce l’elencazione dei redditi prodotti da soggetti non residenti che vengono assoggettati a tassazione in Italia; nella specie, la predetta norma dispone che si considerano prodotti nel territorio dello Stato:

  1. i redditi di capitale corrisposti dallo Stato, da soggetti residenti o da stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di soggetti non residenti;

  2. i redditi diversi derivanti da attività svolte nel territorio dello Stato e da “beni” che si trovano nel territorio stesso, nonché le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti.

Per quanto concerne i redditi di capitale, la Circolare Ministeriale n. 207/E del 26 ottobre 1999 ha stabilito che il presupposto di imponibilità deriva dalla circostanza che il reddito sia prodotto nel territorio dello Stato, ovvero che l’impiego di capitale da cui derivano i proventi sia effettuato in Italia essendo necessario, inoltre, che la corresponsione dei proventi sia effettuata da uno dei soggetti di cui all’art. 23, comma 1, lett. B) del TUIR. In altri termini, ai fini dell’imponibilità del reddito di capitale, è necessario che la predetta corresponsione si riferisca ad un reddito che rappresenti, per il soggetto residente che lo eroga, l’adempimento del proprio obbligo contrattuale assunto, riguardante la remunerazione delle somme e dei valori ricevuti per l’impiego di capitale. Non è sufficiente, secondo l’Amministrazione Finanziaria, che i predetti redditi vengano pagati dai soggetti residenti quando questi svolgano la funzione di meri incaricati al pagamento.

Al contrario, sono considerati di fonte estera, e quindi rientrano nel regime dell’opzione sostitutiva ex art. 24-bis TUIR, i redditi di capitale corrisposti da Stati esteri o da soggetti non residenti nei confronti dei neo-domiciliati; secondo il parere dell’Agenzia, detti redditi rientrano nell’ambito oggettivo di applicazione dell’imposta sostitutiva non solo nel caso in cui essi risultino prodotti all’estero, ma anche qualora le attività finanziarie estere, da cui essi derivano, siano oggetto di un contratto di custodia, di gestione, di amministrazione e consulenza con intermediari italiani, pur essendo depositate presso un conto estero; ovvero, di un contratto di assicurazione sulla vita, a contenuto finanziario, stipulato con compagnie assicurative che operano in regime di LPS, anche laddove la riscossione dei proventi sia affidata ad intermediari italiani.

Per quanto concerne i redditi diversi l’Agenzia, sulla base di quanto sancito dalla Circolare Ministeriale summenzionata, precisa che si considerano prodotti nel territorio dello Stato quelli derivanti da beni che si trovano nel territorio stesso, nonché le plusvalenze derivanti dalla cessione, a titolo oneroso, di partecipazioni in società residenti.

Quindi, ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti di soggetti non residenti, sono rilevanti le cessioni di partecipazioni in società residenti (ad eccezione di quelle escluse dall’art. 23 TUIR), a prescindere dalla circostanza che i titoli o i diritti rappresentativi della partecipazione si trovino nel territorio dello Stato.

La Risoluzione n. 12 in esame evidenzia che, affinchè le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società estere, ovvero di titoli non aventi natura partecipativa, da parte di neo – residenti, rientrino nel regime ex art. 24-bis, è necessario che tali attività non siano oggetto di un conto di deposito aperto presso un intermediario italiano.

Diversamente, indica l’Agenzia, sono da considerarsi redditi prodotti all’estero: quelli derivanti dalla gestione individuale del portafoglio, ove l’intermediario italiano riceva un mandato di gestione discrezionale delle attività finanziarie depositate all’estero; quelli derivanti dall’amministrazione delle attività finanziarie, in cui l’intermediario italiano esegue gli ordini del cliente non avendo alcun potere discrezionale; quelli derivanti dalla attività di consulenza finanziaria e di monitoraggio degli investimenti da parte dell’intermediario italiano, senza che questi abbia il potere di movimentare le attività.

In ultima analisi, con riferimento alle imposte sulle successioni e donazioni, l’Agenzia rileva che, nel periodo di validità dell’opzione ex art. 24-bis TUIR di cui abbia usufruito il dante causa, l’imposta sulle successioni e donazioni si applica limitatamente ai beni e diritti esistenti nel territorio dello Stato al momento dell’apertura della successione o della donazione, ai sensi di quanto previsto dall’art. 2, comma 3, Dlgs. n. 346/1990.

In altri termini, l’Amministrazione finanziaria, riconoscendo un criterio di specialità all’art. 2, comma 3 cit., esclude dall’applicazione dell’imposta sostitutiva ex art. 24 – bis TUIR tutti i beni elencati dalla predetta norma di legge, al momento della donazione o dell’apertura della successione.

In definitiva, non si può sottacere sul fatto che non sempre le attività finanziarie estere, detenute su un conto di deposito aperto presso un intermediario finanziario italiano, siano assoggettabili all’imposta sostitutiva ex art. 24-bis TUIR da parte dei neo-domiciliati: per i redditi di capitale, infatti, l’art. 24-bis cit. sarà applicabile sia ai redditi prodotti all’estero, sia ai redditi derivanti da attività finanziarie estere, che siano oggetto di uno dei contratti summenzionati, stipulati con intermediari italiani; per i redditi diversi, invece, l’imposta sostitutiva sarà applicabile per le plusvalenze derivanti dalle cessioni di partecipazioni in società estere, purchè non siano oggetto di un conto di deposito aperto presso intermediari italiani.

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